Skip to content


Judith Butler

Judith Butler Video della conferenza del 18 febbraio 2008 presso il Centro de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB)

“Debate La condición humana”

Judit Butler. La vulnerabilidad y la supervivencia

video (lingua inglese)

Appuntamento:

giovedì 27 marzo presso l’aula magna della Facoltà di lettere e filosofia di Roma3, Judith Butler e Wendy Brown terranno due seminari correlati sempre sul tema “Sovranità, confini, vulnerabilità”

Orario: dalle 09.00 alle 18.00

in via Ostiense 234 – Roma

_______________________________________________________________________________

Da “Il Manifesto” del 25 marzo 2007:


L’immaginario nazionale imposto a viva forza

«Sovranità, confini, vulnerabilità»: le due
filosofe femministe americane ospiti giovedì 27 di una giornata di
studio all’università Roma Tre

Butler: Quelli che gli Usa uccidono non sono veri «esseri viventi», sono minacce per la «vita» come noi la conosciamo


I. D.

«Sovranità, confini,
vulnerabilità»: questo titolo suggerisce un nesso, se non un
isomorfismo, fra la vicenda dello Stato e quella del soggetto. Le due
nozioni dello Stato sovrano e del soggetto sovrano nascono assieme nel
paradigma del Politico moderno. E’ possibile oggi tracciare un
parallelo fra la crisi della sovranità statuale e la crisi
dell’individuo sovrano?

Penso sia possibile considerare
certe forme della psicologia dell’io e della psicoanalisi kleiniana
come capaci di registrare le tracce della sovranità politica presenti
nella psiche. Che tipo di ego o di psiche è quello che ha cara la
propria impermeabilità sopra ogni altra forma di connessione o
interdipendenza? La mia sensazione è che il «confine» dell’io funzioni
diversamente in presenza di determinate condizioni dello Stato nazione,
specialmente quelle in cui si teme l’«invasione», in cui viene dato un
grande valore all’«integrità interna», in cui si rifiuta la dipendenza
e in particolar modo l’interdipendenza globale.

Per quanto
fosse rintracciabile già in precedenza, la questione della
vulnerabilità umana viene in primo piano nel tuo lavoro dopo l’11
settembre, assieme alla questione del lutto come pratica pubblica e
dell’interdipendenza come antidoto alla politica della vendetta. Com’è
stato influenzato il tuo pensiero dagli eventi dell’11 settembre?

Mi
era chiaro che in risposta all’11 settembre il governo Usa, insieme a
un sistema massmediatico di bassa lega, ha cercato di creare un
soggetto nazionale pervasivamente maschilista, che si definisse come
impermeabile, invulnerabile, perennemente aggressivo, e che rifiutasse
i suoi legami internazionali. La questione attiene al modo in cui il
soggetto nazionale risponde all’improvvisa presa di coscienza della sua
vulnerabilità. Era la prima volta che gli Stati uniti venivano
attaccati all’interno dei loro confini, dopo l’episodio di Pearl Harbor
durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati uniti avrebbero potuto
sfruttare questa opportunità per riconoscere la propria vulnerabilità,
e anche per riconoscere che questa vulnerabilità è generalizzabile –
cosa che avrebbe potenziato gli accordi internazionali e transnazionali
miranti a ridurre al minimo il rischio di violenza. Ma la loro
strategia è consistita invece nel rimuoverla.

Questa versione del
soggetto nazionale (una sorta di immaginario della nazione imposto a
viva forza) è stata creata regolando il modo in cui intendiamo la morte
o reagiamo ad essa. La morte delle vittime del World Trade Center non è
stata considerata solo un fatto gravissimo, ma è stata innalzata ad uno
status di straordinarietà, di sacralità. D’altro canto ci è stato
impedito – e ci viene impedito tuttora – di vedere i morti di guerra.
Ciò significa che la regolazione del campo visivo in cui è possibile
incontrare la morte resta cruciale per la guerra e per il nazionalismo
su cui essa poggia. Certe vite sono degne di lutto, altre no, e questo
serve a giustificare la violenza che infliggiamo e a rimuovere
qualunque concezione della nostra precarietà. Quelli che gli Usa
uccidono non sono dei veri «esseri viventi», sono popolazioni che
minacciano la «vita» così come noi la conosciamo. Questo è una
pericolosa schisi che incide sulla cultura della guerra.

L’idea
della vulnerabilità e dell’interdipendenza come base di una politica
non violenta implica un rovesciamento del paradigma politico moderno
basato sulla forza e sulla logica amico-nemico. In Critica della
violenza etica definisci la vulnerabilità e l’interdipendenza in una
prospettiva etica. Ma etica e politica, come sappiamo, per quanto siano
connesse non coincidono. Sul fronte della politica istituzionale, dopo
l’11 settembre la logica della forza e della violenza, della difesa
della sovranità nazionale e della vendetta ha di nuovo prevalso. Può
un’etica della vulnerabilità e dell’interdipendenza farsi strada in
pratiche sociali e politiche capaci di disturbare questa sorta di
coazione a ripetere del Politico? Nel femminismo italiano, ad esempio,
concepiamo la relazione fra donne come una forma sociale e pratica
politica che mette in atto l’interdipendenza, contro il paradigma
dominante dell’autonomia e della sovranità.

Mi piace
molto questa idea della relazione tra donne come forma sociale che
mette in atto l’interdipendenza. La mia sensazione è che certi principi
etici appaiano con evidenza ed entrino in gioco solo in virtù di
situazioni politiche. Così per me non c’è etica al di fuori della
pratica sociale e del terreno del potere. Mi sembra che qualunque
decisione di mettere in atto la violenza, o di rifiutarla, abbia una
dimensione etica, in quanto attiene alla condotta e al modo in cui
giustifichiamo la relazione – qualunque relazione – che stabiliamo con
la violenza. Ma non saremmo in situazioni di questo tipo se non fosse
per l’esistenza dell’aggressione politica e, più specificamente, di
forme sociali di aggressione. Il movimento di autodifesa femminista è
al contempo una pratica etica e politica. Non sarebbe necessario, se
non fosse per la violenza contro le donne. E tuttavia incarna principi
etici in forme sociali.

Un tema cardinale del tuo lavoro,
secondo me, è la tua interpretazione della dinamica del ricoscimento
come processo che non conferma l’identità di chi vi è implicato, ma la
destabilizza e la trasforma. Ma il riconoscimento dipende anche, tu
sostieni, dalle norme e dallo Stato, che tendono viceversa a fissare,
normalizzare e gerarchizzare le nostre identità. Se e fino a che punto
affidare, o viceversa sottrarre, il riconoscimento collettivo alla
legge, ai diritti e allo Stato, è una questione assai dibattuta nei
movimenti politici, anche qui in Italia, dove si è ripresentata di
recente a proposito delle convivenze e dei matrimoni gay. Tu che ne
pensi?

A mio parere dobbiamo elaborare una nozione di
«riconoscimento critico», ossia una pratica che consiste nel cercare
riconoscimento nei termini delle norme esistenti (ad esempio, ampliare
le norme per l’uguaglianza e la giustizia), ma anche nell’interrogare e
mettere in discussione la portata e il carattere di queste norme. Se ci
limitiamo a cercare il riconoscimento, resteremo legati alle norme
esistenti. Ma se ci sta a cuore chi non riesce a ottenere
riconoscimento dalle norme esistenti, o dal loro ampliamento, dobbiamo
elaborare nuove forme sociali, ed anche nuove norme. Questo vuol dire
interrogare i limiti del riconoscibile e formulare una politica
precisamente su questo punto.

Un altro tema importante del
tuo lavoro, nella mia prospettiva, riguarda il cambiamento dell’ordine
simbolico, questione capitale anche nel pensiero della differenza
sessuale italiano. Personalmente leggo la tua teoria della
performatività, in Scambi di genere e in Excitable Speech, come una
ricerca di pratiche di risignificazione che possono appunto modificare
l’ordine simbolico. Altrove però (La rivendicazione di Antigone, La
disfatta del genere) sembri delineare un cambiamento dell’ordine
simbolico (segnatamente della struttura dell’Edipo) che procede
direttamente dal cambiamento sociale (segnatamente dalle nuove
tipologie familiari post-nucleari). Che rapporto c’è secondo te fra
ordine sociale e ordine simbolico e fra la trasformazione dell’uno e
dell’altro, e quali pratiche pensi che possano innescare un circolo fra
loro?

A mio modo di vedere, è un errore interpretare
l’apparente intrattabilità di certi nuovi rapporti di parentela come il
segno di un ordine simbolico che perdura immutato. Ciò che chiamiamo
«simbolico» è quella struttura del rapporto di parentela che appare
difficile, se non impossibile, da cambiare. Chi difende il simbolico
come un ordine dato e immodificabile è molto spesso costretto a
patologizzare i rapporti di parentela che non si conformano alla sua
legge. Di conseguenza, devono decidere costantemente che cos’è
«veramente femminile» o «veramente intelligibile», producendo così un
terreno di esclusione per una politica innovativa della sessualità e
della parentela. Questa logica dimostra che c’è sempre un «fuori» dal
simbolico: un terreno che è anche «vivibile», pur essendo costantemente
allestito come «invivibile». Penso che sia possibile, ad esempio,
pensare l’Edipo fuori dalla famiglia eterosessuale, ripensare la
parentela stessa fuori dalle strutture familiari, e liberare la
sessualità dal suo strangolamento nell’identità.

La
psicoanalisi gioca un ruolo cruciale nel tuo pensiero politico. Per
parte mia, anch’io penso che oggi sia impossible ripensare l’ontologia
politica senza uno sguardo psicoanalitico. Tuttavia il rapporto fra il
livello psichico, sociale e politico della nostra vita è complesso.
Fino a che punto pensi che la psicoanalisi ci sia d’aiuto nel
riformulare la teoria e soprattutto la pratica politica?

Penso
che sia particolarmente importante, nella politica contemporanea,
rintracciare le strategie di rimozione, considerare come il passato
continui nel presente, anche come presente. Non so se possiamo riuscire
a capire quello che succede in Medioriente senza un senso
specificamente politico del trauma. E non so se possiamo riuscire a
capire il razzismo, la misoginia, l’omofobia, la xenofobia senza
considerare l’ansia e la paura che accompagnano le relazioni di
prossimità con gli altri. Noi negoziamo costantemente i confini che ci
separano dagli altri o che ci connettono con loro, e ciò dimostra come
certi problemi psicoanalitici, concepiti socialmente, informino la
politica contemporanea sull’immigrazione (che riguarda sempre il
confine: chi può attraversarlo, e a quale prezzo per il sé?) e sulla
guerra (chi può irrompere attraverso un confine, e a quale costo?). Non
credo che estrapolare un modello individuale della psiche per pensare
le relazioni politiche funzioni: la cosa che mi pare più promettente è
considerare con quanta frequenza le relazioni politiche siano formulate
in termini di ansia, paura, difesa, vendetta, aggressione, ma anche, e
viceversa, di riparazione e relazionalità.

(Ha collaborato Marina Impallomeni)

Posted in Pensieri volanti.